PURÌM - 13/03/2020
A cura di Fabrizio Lelli
La festa di Purìm ruota intorno alla narrazione del libro biblico di Ester ed è la Meghillà (il rotolo - così si chiamano i cinque libri biblici letti in occasione delle principali celebrazioni liturgiche - Cantico dei cantici, Rut, Lamentazioni, Qohelet e Ester) per eccellenza. In occasione della festa, il rotolo di Ester si legge sia in sinagoga sia a casa, dove la cerimonia assume un carattere tutto femminile, sia perché la protagonista della vicenda è la regina Ester sia perché è tradizione regalare un rotolo manoscritto di Ester (spesso molto decorato) alle spose.
L’obbligo è di leggere la Meghillà sia la sera del 13 che la mattina del 14 del mese ebraico di Adàr. Di sera può essere letta dall’uscita delle tre stelle fino all’alba. Di giorno, dall’alba al tramonto. Uomini, donne e bambini devono adempiere l’obbligo di precetto (mitzwà) di leggere la Meghlillà o ascoltarne la lettura. Il miglior modo di osservare il precetto è leggere la Meghillà pubblicamente in sinagoga piuttosto che a casa.
Durante la lettura, è uso fare rumore ogni volta viene pronunciato il nome del perfido Amàn, l’antagonista della storia. Si suonano delle “raganelle”, si battono i piedi etc. Coprendo con questi suoni sgradevoli il nome del nemico se ne annulla magicamente il potere.
Ecco l’immagine di una “raganella” della seconda metà del XX secolo, proveniente da una comunità ebraica degli Stati Uniti. Sul trono siedono Mordekhày (Mardochèo) e la regina Ester.
In alto si legge, in ebraico, l’inizio del libro biblico: “Avvenne al tempo di Assuero” (Est., 1,1) e, in basso, il testo di Ester 8,16: “Per gli ebrei vi era luce, letizia e esultanza”.
Dolce tipico di Purìm sono le cosiddette “orecchie di Amàn”, chiamate in yiddish hamantashen, le “sacche di Amàn”. Sono dei pasticcini farciti dalla forma triangolare. Si possono realizzare con diversi ripieni: il più tradizionale (di origine ashkenazita) è quello con i semi di papavero, ma si confezionano anche con marmellate, cioccolato, halva o addirittura formaggio.
Il ripieno allude alla natura nascosta del miracolo di Purìm. Anche il nome Ester (di origine persiana e da associare alla radice di Aster, “stella, astro”) in ebraico significa “nasconderò”, un riferimento alla natura occulta del volto divino, di cui non sono noti i propositi all’uomo.
TEATRO DI PURÌM
Di Fabrizio Lelli
Non abbiamo informazioni particolareggiate sull’attività teatrale delle comunità ebraiche italiane in età medievale, anche se è quasi certo che, nonostante le restrizioni imposte dalle normative rabbiniche, esistessero fin dall’antichità forme di rappresentazione in qualche modo parallele a quelle in uso presso la maggioranza presso cui vivevano i nuclei diasporici.
A partire dal XVI secolo, epoca che coincide in Italia con l’istituzione dei ghetti, diversi documenti attestano l’uso di spazi destinati all’allestimento di commedie, frequentati sia da ebrei sia da cristiani. Ad esempio, nei suoi diari, il veneziano Marin Sanudo registra che il 4 marzo 1531, all’indomani di Purìm, “fu rappresentata tra gli ebrei del ‘Geto' [il ghetto di Venezia] una mirabile commedia; anche se nessun cristiano poté assistere per ordine del Consiglio dei Dieci. È terminata alle 10 di sera.” Evidentemente all’evento annuale dovevano aver partecipato in passato anche non ebrei, se il Consiglio avvertì la necessità di emanare il provvedimento.
La festa di Purìm era la più favorevole alla rappresentazione di sceneggiature ispirate al testo biblico ma caratterizzate da toni parodistici e giocosi. Come è noto, la celebrazione prende spunto dalla storia narrata nel libro biblico di Ester, ambientato nell’antica Persia e forse redatto nel contesto della diaspora ebraica di Babilonia. La festa, che probabilmente si sovrappose ad antichi riti mesopotamici di fine inverno, celebra il prossimo arrivo della primavera. Come altre cerimonie pagane invernali, ad esempio i Saturnalia romani, Purìm è una festa votata al sovvertimento dei valori: ciò che è illecito negli altri giorni dell’anno può essere lecito per Purìm. Pertanto in tale occasione si può concedere anche la messa in scena di una realtà fittizia, altrimenti vietata. Si osserva il parallelismo, anche temporale, con il carnevale cristiano, periodo di gioia sfrenata, in cui tutto è possibile, prima della penitenza quaresimale.
Se negli ambienti cristiani del Rinascimento furono ampiamente diffuse commedie e farse da allestire nel periodo carnevalizio, analogamente all’interno delle comunità furono rappresentati, almeno dal XVI secolo, i cosiddetti Purimspielen (o Purim-Shpil, in yiddish “rappresentazioni di Purìm”), documentati per l’epoca soprattutto nell’Italia settentrionale, luogo di commistione di ebrei di varia provenienza, in particolare ashkenaziti (ebrei centro-europei di lingua tedesca).
I testi dei Purim-Shpil pervenuti ai nostri giorni sono spesso in terza o in ottava rima, quindi in forme prosodiche tipiche della cultura italiana dell’epoca, e sono stilati perlopiù in giudeo-italiano.
Non erano dunque composizioni “sacrali” e il veicolo linguistico, facilmente accessibile, ne permetteva la comprensione ad un ampio pubblico (come si è detto, non solo ebraico). Tra le più celebri sceneggiature di Purìm giunte ai nostri giorni, ricordo l’Istoria de Purim di Mordekhày Dato, probabilmente composta in area ferrarese verso la metà del Cinquecento.
E nell’Italia del sud? Non abbiamo traccia di attività sceniche all’interno delle comunità locali, dato che nel XVI secolo gli ebrei furono allontanati per sempre dai territori recentemente assoggettati ai domini spagnoli. Sappiamo, tuttavia, che dalla fine del Quattrocento molti ebrei si trasferirono dalla Puglia a Venezia e molti a Corfù, anch’essa sotto la sovranità della Serenissima, dove crearono un’importante comunità che continuò a lungo a mantenersi in rapporto con la terra d’origine.
Un esempio di una composizione finalizzata ad uso comunitario e in qualche modo ascrivibile ad una produzione teatrale ci è conservata dal poema ebraico in terza rima Yashìr Moshè (Mosè canterà) di Moshè Kohèn da Corfù, autore attivo tra l’isola ionia e Venezia.
Il lungo poema, composto nella seconda metà del XVI secolo e pubblicato a Mantova nel 1612, era declamato-recitato il sabato prima di Purìm (Shabbàt zakhòr), quando si introduce la festa dedicata alla regina Ester con l'obbligo di ricordare il perfido Amalèk, leggendario antenato di Amàn.
L'autore racconta dettagliatamente la storia dell'eroica sovrana di Persia, servendosi di espressioni tratte dalla Bibbia e delle interpretazioni rabbiniche della Megillà (il “rotolo” per eccellenza, quello di Ester, che si legge a Purìm), derivate soprattutto dal trattato omonimo del Talmud Babilonese e dal Midràsh Estèr rabbà.
La chiarezza espressiva è l'intento dichiarato dall’autore che intende rivolgersi all’intera comunità (in ebraico e non in giudeo-italiano) e che fonde registri stilistici diversi. Ecco la mia traduzione di una parte del prologo del poema (vv. 22-27), in cui il poeta si rivolge in prima persona al pubblico:
Ma per raccontare la storia nell'ordine,le mie parole saranno espresse chiaramente, con cura,si spiegherà tutto nei dettagli e non mancherà niente.Anche dalle parole della tradizione [rabbinica] nella mia pennaciascuna cosa andrà al suo posto, secondo la sua insegna,fino a spaccare un capello, senza fallire un colpo.
Si coglie il carattere teatrale dell’opera, che ricorda l’esordio delle commedie “all’antica”, nel quale l’autore si rivolge agli spettatori per introdurre l’azione scenica e spiegare il contesto di riferimento. Nei versi iniziali l’autore presenta l’azione, sottolineandola con il frequente uso dei dialoghi (vv. 1-12):
[Il fatto] avvenne ai giorni del re Assuèro,che prestò orecchio alla parola di Amàn,per abbeverarci di tossico e di acqua di assenzio.È lui che, preparando strumenti di morte, ordìpersecuzione e strage, sciagura e assassinio,ma cadde in trappola nella rete che aveva celato."Questo popolo disperso come cumino, come finocchio selvatico",così gli disse, "la cui fede è diversa, ora mi leveròe, se me lo permetterai, per sempre io l'annienterò.Cancellare cancellerò ogni essere viventeche si trova tra loro, se questo è bene ai tuoi occhi,lo distruggerò, non gli darò più modo di risollevarsi."
Nella scelta lessicale il poeta ricalca il testo biblico, aggiungendo immagini enfatiche volte a suscitare pathos e a rendere avvincente la trama. L'autore utilizza sapientemente il terzo verso di ogni strofa per creare un effetto di crescendo e coinvolgere maggiormente l'ascoltatore. Anche l'intervento diretto di Amàn, che segue l'impostazione dialogica del III capitolo del libro di Ester, assume maggiore solennità scenica rispetto al modello biblico. La scelta dell'autore corfiota di servirsi del ritmo dell'endecasillabo dantesco può porsi in parallelo con la rinascita del teatro classico (del giambo si serve anche Shakespeare per i suoi drammi) nell'Italia rinascimentale. La cadenza giambica delle dieci sillabe di ogni verso del poema si snoda per le 428 terzine incatenate, creando un flusso narrativo costante per tutto l'inno. Favorisce l'ascolto anche l'uso sapiente di enjambements che legano i versi all'interno delle terzine e, spesso, anche le terzine tra loro.
È bello pensare che alla rappresentazione del poema scenico di Moshè da Corfù assistessero anche i discendenti dei profughi ebrei salentini.